6 Ottobre 2020

Sfruttamento manodopera, operai costretti a turni massacranti per poche centinaia di euro: tra loro anche una donna incinta e una minore. Misura cautelare per cinque imprenditori FOTO


C’erano anche una donna in stato di gravidanza, una ragazza minorenne e un uomo con problemi alle gambe, tra gli operai cinesi fatti lavorare 15 ore al giorno, senza ferie né riposo, per 400 o 500 euro al mese, in condizioni di sicurezza precarie, alloggiati in dormitori degradanti, ricavati in immobili vicini ai laboratori. Per questo, con l’accusa di sfruttamento di manodopera in condizioni di bisogno, sono stati arrestati cinque imprenditori cinesi, appartenenti ad un’unica famiglia, che hanno gestito alcuni laboratori di confezione, formalmente intestati a prestanome. Ben 17 i cambi di ragione sociale delle ditte individuali nel giro di pochi anni, finalizzare ad eludere i controlli e il fisco. L’indagine dei sostituti procuratori Lorenzo Gestri e Vincenzo Nitti – portata avanti da carabinieri, ispettorato del lavoro, Asl, Inps e Guardia di Finanza – è scaturita nel 2018 da uno dei numerosi controlli del protocollo Lavoro Sicuro siglato tra Regione e Procura dopo la tragedia di via Toscana e prossimo alla scadenza.

In carcere sono finiti She Jinquan, detto Alessandro, 47enne originario del Fuijan, il figlio She Mengnan, detto Massimo, 24 anni, Zuhang Xing (30 anni) e Yue Bingqui (46 anni), quest’ultimo posto ai domiciliari. Misura cautelare, ai domiciliari, è scattata anche nei confronti di una donna, al momento localizzata a Marsiglia.
Tre i laboratori gestiti dalla famiglia, di cui uno in via delle Fonti, uno in via Pisa e un altro a Campi Bisenzio, che si avvaleva anche di alcuni operai bengalesi e cinesi irregolari in Italia. Le indagini non hanno finora potuto contare sulla collaborazione delle vittime, che non si sono rivolte ai sindacati, né alla Procura. A monitorare le loro condizioni di lavoro ci hanno pensato le telecamere di videosorveglianza, installate nelle fabbriche. Sono così stati ricostruiti turni massacranti, pasti consumati davanti alle taglia e cuci, condizioni igieniche precarie e di sicurezza insufficienti.

Ingente l’evasione fiscale e contributiva ipotizzata dagli inquirenti: 255.000 euro di contributi evasi per il solo periodo d’indagine (2018-2020), mentre dal 2009, anno in cui ebbe inizio l’attività di impresa delle confezioni, l’Inps contesta 1,7 milioni di euro di contributi non versati. La guardia di Finanza ha invece accertato, nel giro di pochi anni, prelievi sui conti correnti della società per un totale di 1,3 milioni di euro. Soldi poi spediti in Cina tramite bonifici su altri conti, che in parte sono ritornati a Prato, sotto forma di donazioni familiari, per circa 350 mila euro, finalizzati all’acquisto di immobili.
I finanzieri hanno proceduto al sequestro per equivalente dei beni di proprietà: un capannone industriale, 100 taglia e cuci, due furgoni, le abitazioni degli imprenditori e 17.100 euro in contanti trovati durante le perquisizioni.

Il procuratore Giuseppe Nicolosi, nel commentare l’indagine, ha sottolineato “l’azione corale e sinergica degli enti deputati alla tutela del lavoro” e ha rinnovato l’appello affinchè l’esperienza del Piano Lavoro sicuro, in scadenza a dicembre, non si esaurisca. “Mi sto adoperando con tutte le mie forze per stabilizzare e prorogare il protocollo che tanti risultati sta producendo” ha detto Nicolosi, rivolgendosi, di fatto, alla nascente giunta regionale. Per poi sottolineare come fra gli arrestati ci siano “imprenditori ben radicati da anni sul territorio pratese”, fra cui “il dominus, che era impegnato in compiti di rappresentanza della comunità cinese presso le istituzioni e negli ambienti socio-economici cittadini”.

 

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