13 Dicembre 2011

LA NOSTRA STORIA/Garibaldi in fuga trovò rifugio a Prato ma in tanti non vollero nasconderlo


Il proiettile che ferì Garibaldi sull'Aspromonte

Le celebrazioni del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia son giunte alla conclusione, ed anche noi vogliamo ricordare questa importantissima ricorrenza con alcuni aspetti poco conosciuti della vita di Garibaldi.
Tutti hanno appreso che nel 1849 l’Eroe fu aiutato da alcuni pratesi fedeli mazziniani a fuggire dopo che si era trovato a Cerbaia, attraversando l’Appennino: fu accolto dal proprietario di un mulino, certo Luigi Biagioli detto Pispola e successivamente portato in carrozza al sicuro.
Di questo episodio Prato e i sostenitori garibaldini ne andarono fieri ma, come spesso succede in questa città, si accesero dotte e pungenti liti tra i protagonisti a cominciare da Piero Cironi e Francesco Franceschini, soprattutto verso quegli eminenti cittadini che si erano rifiutati di nascondere Garibaldi nelle loro ville, nel timore che la polizia li potesse colpire. Inoltre vi fu una sferzante polemica, perché il Comune attese dieci anni per concedere la Cittadinanza onoraria  mentre in altre circostanze aveva dimostrato una lodevole sollecitudine.
Tornando a Garibaldi è interessante conoscere alcuni aspetti personali della sua avventurosa vita, soffermandoci su due vicende. La prima riguarda il suo ferimento durante le ripetute battaglie nell’Aspromonte, che dimostra l’approssimazione della medicina di allora: su tre luminari interpellati per rimuovere una pallottola da una gamba, incredibilmente due diagnosticarono che non c’era niente ma soltanto una scalfittura, mentre il terzo provvide all’estrazione del proiettile. Una curiosità: il cerusico disegnò l’evento sopra un foglio e noi ve lo mostriamo in quanto rarissimo da vedersi.
La seconda vicenda riguarda l’approssimarsi della sua fine, Egli da buon massone, come si nota chiaramente dalla richiesta dalle piante di acacia, chiese di essere bruciato dettagliando con queste disposizioni dieci anni prima di morire:
“Voglio essere bruciato e non cremato, capite bene. In quei forni che si chiamano “crematoi” non ci voglio andare. Voglio essere bruciato come Pompeo, all’aria aperta … Farete una catasta di quelle acacie della Caprera, che bruciano come l’olio; stenderete il mio corpo vestito della camicia rossa sopra un lettino di ferro, mi deporrete nella catasta con la faccia rivolta al sole, e così mi brucerete. La cenere che resterà la metterete in un ‘urna … anzi in una pignatta qualunque e la deporrete sul muriccio dietro le tombe di Anita e Rosita. Così voglio finire … “
Con disposizioni così particolareggiate, chi può sbagliare? Eppure dopo la morte cominciano subito i dubbi e le reticenze. È vero: gli intimi volevano rispettare le volontà del defunto ma vi erano patrioti, ex garibaldini, rappresentanti di società operaie, politici, massonici, democratici che puntarono i piedi: “Garibaldi è nostro e abbiamo il diritto di tenercelo”. Dopo qualche giorno di discussioni, si decise di soprassedere alla cremazione e di procedere all’imbalsamazione della salma. Garibaldi fu sepolto sotto un enorme blocco di granito, nel piccolo (e allora abusivo) cimitero di Caprera alla faccia del rispetto delle ultime volontà!
Nella relazione del medico che ne aveva accertata la morte, vi è un dato assai curioso: Garibaldi era alto soltanto 165 centimetri contrariamente a come sembrava nelle innumerevoli rappresentazioni figurate pitturate da veri e falsi ritrattisti.

Alessandro Assirelli

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