5 Dicembre 2015

David Grossman a Prato, le sfumature della scrittura contro i cliché: “La forza delle storie cambia le persone”. Folla all’incontro del Pecci


David Grossman, o “delle sfumature”. Il potere della parola che, come strumento di un poeta, scava e definisce e dà un nome alle cose, il ruolo dello scrittore e la forza delle storie che “cambia le persone”. Dal palco del Politeama dove interviene ospite del ciclo di incontri “Uomini in guerra” curato dal giornalista Wlodek Goldkorn, lo scrittore e intellettuale israeliano David Grossman parla del potere della parola, dell’empatia, della speranza, anche in un mondo in guerra, in una terra – Israele, dove è nato, vive e scrive – dove “se riuscissimo, israeliani e palestinesi, a trovare un compromesso, se fossimo coraggiosi abbastanza, il compromesso troverebbe piano piano le proprie istanze, le persone ne beneficerebbero”. Davanti a lui, in platea, volti attenti, una folla ordinata e composta e numerossissima, accorsa ben prima dell’apertura del teatro – alle 16 c’è già una coda davanti al portone quasi come per un concerto da rock star: “Fa piacere – dirà in apertura Fabio Cavallucci, direttore del Centro Pecci, organizzatore dell’incontro – che ci siano cose di cultura che hanno questa attenzione. Cerchiamo di parlare di cultura tenendo conto delle cose del mondo, speriamo in un futuro di parlare di pace oltre che di guerra”.

E se “la parola è una occasione di pensare più a fondo la situazione attuale”, dov’è il ruolo dello scrittore, dello scrittore in una terra in guerra? “Scrivere un libro è già una buona azione?”, gli chiede Goldkorn. “Credo che la responsabilità principale di uno scrittore sia di scrivere un buon libro – risponde – e scrivere un buon libro significa creare un mondo intero, armonioso come il corpo umano, una sorta di melodia interiore. Io scrivo in Israele, e quello che scrivo riflette la situazione del mio paese. Anche cercare di portare la luce fuori dalle tenebre ha un significato politico: scrivere significa insistere sulle sfumature, al contrario di quanto fanno i mass media che procedono per cliché. Ogni situazione umana è fatta di sfumature e parte della costituzione stessa dell’essere umano chiamare le cose con il loro nome, non lasciarle al silenzio ma insistere, sforzarsi nella capacità di riconoscere le sfumature”. Quando, nel 2006, il figlio Uri è stato ucciso da un razzo Hezbollah, “sentivo che non volevo dire niente. Poi dopo un po’ ho sentito che dovevo trovare le parole, altrimenti avrei negato la mia responsabilità: invece volevo documentare ogni sfumatura di quello che avevo visto, di quello che ho vissuto. I cliché ci proteggono – ammonisce – invece attribuire nomi privati alla realtà è come aprire ogni volta una ferita, ed è questo che noi esseri umani dobbiamo fare, dare i nomi alla realtà, stare con i piedi piantati nella vita, documentare tutto, anche le cose più dolorose”. E quando invita a “guardare la realtà dal punto di vista dei vostri nemici, e capirete d’improvviso altre cose, la singolarità di ogni individuo”.

Goldkorn gli chiede dov’è il limite dell’empatia. “Non provo empatia per chi uccide altre persone solo perché sono diverse – risponde Grossman ricordando la strage di Parigi del 13 novembre scorso, e le sue 130 vittime – non provo empatia per chi non pensa nemmeno di avere un dialogo, non viene per negoziare ma solo per uccidere. Occorre una linea rossa che definisca l’empatia, senza la quale l’empatia diventa vaga”. E se la narrazione riesce a “cambiare le persone, come io sono stato cambiato dalle cose che ho letto”, allora occorre scavare per trovare “una storia sotto la storia, che permetta di non essere prigionieri di una storia ufficiale che raccontiamo su noi stessi: gli uomini sono ricchi di storie”.

E la speranza, se hai una speranza, da dove ti viene? “Forse dal fatto – risponde ancora – che non posso permettermi il lusso della disperazione”

Lu. Pe.

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