11 Maggio 2016

Da incensurato a boss del caporalato: la parabola di “Numbar Dar” che sfruttava centinaia di immigrati e profughi nelle vigne del Chianti


Da incensurato a vero e proprio boss del caporalato, in pochi anni, con la complicità di tre professionisti pratesi e di alcuni connazionali che controllavano i braccianti nei campi. È la parabola del 38enne pakistano, indagato assieme ad altre 11 persone nell’inchiesta della Procura di Prato, condotta dalla Digos in collaborazione con Polizia stradale, Corpo Forestale dello Stato e Guardia di Finanza, che ha fatto luce sullo sfruttamento di centinaia di immigrati e richiedenti asilo nelle campagne del Chianti. “Numbar Dar”, ovvero il “capo villaggio”: così l’uomo era conosciuto nella comunità pakistana di Prato sulla quale aveva una notevole influenza. Ben 161 le persone, quasi tutti connazionali, che risultavano alle dipendenze delle ditte aperte dal boss, alcune delle quali intestate alla moglie, anch’essa indagata, ma da mesi irreperibile. 

Numbar Dar viaggiava su una jeep e da vero imprenditore si occupava di procurarsi le commesse fra le aziende vitivinicole del Chianti: quattro quelle oggetto delle perquisizioni di ieri, che al momento non devono rispondere di nessun reato e si sono dichiarate all’oscuro di tutto. L’intermediario riusciva a procurare manodopera in tempi brevi e in grande quantità, attingendo alla massa di immigrati in cerca di una busta paga per rinnovare il permesso di soggiorno e disposti a lavorare fino a dodici ore al giorno nei campi, per un compenso massimo di 4 euro l’ora.
Al resto pensavano tre professionisti pratesi, indagati per concorso esterno nell’associazione a delinquere – non iscritti all’Ordine dei Consulenti del lavoro di Prato, Firenze e Pistoia – fanno sapere da Palazzo delle Professioni. I professionisti si preoccupavano di preparare le buste paga e le comunicazioni delle assunzioni a Inps e Inail, ma poi i miseri compensi venivano versati in nero e senza contributi e le aziende dell’imprenditore pakistano non pagavano sistematicamente le tasse, al punto che sulla sua auto – forse l’unico bene aggredibile in Italia – risulta un fermo amministrativo per una somma superiore ai 200 mila euro.

Durante le perquisizioni sono stati sequestrati diversi documenti e i “libri mastro” con la contabilità delle ore lavorate: il giro d’affari stimato è di parecchie decine di migliaia di euro al mese, che venivano per lo più spediti in Pakistan. Una parte dei guadagni illeciti serviva a foraggiare i consulenti del lavoro pratesi (in inchieste simili a questa, ciascuna pratica poteva valere 400 o 500 euro) e i sette caporali che impartivano gli ordini ai braccianti nei vigneti, non risparmiando intimidazioni e botte a chi osava ribellarsi. Due profughi, ospiti in Santa Caterina, hanno avuto il coraggio di denunciare i propri aguzzini, assistiti dagli operatori del Santa Rita che per primi si sono accorti delle anomalie e hanno dato il là alle indagini. I punti di raccolta dei braccianti, a decine ogni giorno, erano i giardini di via Marx e il distributore di via Cavour. Da lì, ogni mattina all’alba, partivano furgoni e camion carichi di persone. Nelle giornate di picco della raccolta dell’uva, i viaggi da Prato a Tavarnelle Val di Pesa erano anche due al giorno. I caporali privilegiavano i connazionali pakistani: solo a loro era concesso del cibo e un po’ di acqua. Se occorrevano altre braccia, venivano chiamati a lavorare alla giornata anche immigrati e richiedenti asilo africani, vittime di maggiori soprusi e trattamenti discriminatori. Ai “negri” – così venivano chiamati – non si dava da bere e li si lasciava lavorare a piedi nudi nei campi.
Nelle campagne del Chianti fiorentino, anno 2016, per imbottigliare le eccellenze del Made in Italy.

Dario Zona

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