22 Novembre 2022

Don Mattia Ferrari, il sacerdote «pescatore di uomini»

Il giovanissimo cappellano della nave Ong Mediterranea Saving Humans ha raccontato la propria esperienza alla Casa del Popolo di Cafaggio


Dobbiamo vigilare, come cristiani e come cittadini, per non cadere vittime di una pandemia spirituale: «la peste del cuore». Per don Mattia Ferrari è questa una delle malattie più pericolose per l’uomo di oggi, «quella di far credere al nostro cuore che saremo più felici se ci chiudiamo su noi stessi e sul nostro benessere, escludendo quindi il povero, il migrante il disabile». Don Mattia è un giovane sacerdote modenese, non ha neanche trent’anni, ed è il cappellano della Mediterranea Saving Humans, organizzazione non governativa che monitora il Mediterraneo con una nave per salvare le persone in difficoltà. Ovvero i migranti, coloro che fuggono da guerre e povertà in cerca di un luogo sicuro. Sono tre anni che don Mattia non sale su una nave, la mafia libica lo ha minacciato di morte, e allora continua il suo ministero di «pescatore di uomini», dal titolo del libro scritto con il giornalista di Avvenire Nello Scavo, raccontando il dramma dell’immigrazione e dei respingimenti. Nei giorni scorsi è stato a Cafaggio, ospite della locale Casa del Popolo per ricevere un contributo raccolto grazie all’annuale Festa del Volontariato che raccoglie tutte le anime della frazione in una grande iniziativa di solidarietà.

Don Mattia, negli ultimi giorni è tornato d’attualità il fenomeno degli sbarchi dei migranti in Italia attraverso il canale di Sicilia, qual è la situazione?

«Tutti i giorni ci sono persone in mare che rischiano il naufragio. E in una vasta area di mare non sono presenti le navi delle Ong. E quindi il dramma è quello delle persone abbandonate a se stesse, l’altro dramma, spesso dimenticato, ma continuamente presente, è quello dei respingimenti operati dalla cosiddetta guardia costiera libica, fortemente infiltrata dalla mafia libica. Si mette molta attenzione sulle Ong, ma il vero dramma sono i respingimenti, con persone catturate e riportate nei lager in Libia».

Lei è un sacerdote «pescatore di uomini» perché salva le persone che rischiano di annegare per arrivare in Italia?

«Questo è quello che fanno le nostre organizzazioni, attraverso la nostra nave e non solo. Abbiamo tante reti affinché il soccorso avvenga con tutte le navi che si trovano in zona, affinché adempiano all’obbligo di soccorso. Abbiamo tanti contatti con i ragazzi che si trovano in Libia, molti ci chiamano disperati, sono torturati, portano sul corpo segni impressionanti e ci chiamano per essere riconosciuti come fratelli e sorelle. Noi chiediamo che siano evacuati dalla Libia senza dover traversare il mare dove rischiano il naufragio. Servono canali sicuri, corridoi umanitari».

Si accusano le Ong di collaborare con i trafficanti di esseri umani. Lei a questo proposito ha scritto anche una lettera pubblicata da Avvenire.

«Sono intervenuto nel dibattito, a nome di tutta questa famiglia, perché tale accusa è gravemente diffamatoria per tutti, ma è offensiva doppiamente per tutte quelle persone che, come me, sono ufficialmente sotto minaccia della mafia libica e per questo posti dallo Stato sotto forme di tutela. Questa propaganda di chi fa il gioco? Direi proprio della mafia libica, perché bersaglia coloro che la mafia ha scelto come nemici».

Lei ha invitato gli italiani a vigilare per una pandemia spirituale. Parla del rischio della «peste del cuore», che significa?

«È una metafora che mi sono permesso di prendere dall’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice. Significa che non ci sono solamente le epidemie che abbiamo sperimentato e in parte stiamo ancora sperimentando, ma ci sono anche le malattie spirituali, le malattie del cuore umano. E in particolare c’è questa peste che prende il nostro cuore e gli fa credere che saremo più felici se ci chiudiamo in noi stessi e nel nostro benessere e quindi se escludiamo il povero, il migrante, il disabile e la persona che, per qualunque motivo, ci sembra diversa o che, per qualunque motivo, ci sembra un potenziale pericolo per la nostra ricchezza. È una peste che crea sofferenza, non solo in chi viene escluso, ma anche in noi stessi. Queste persone si illudono di trovare la felicità, ma in realtà si scoprono sempre più inquiete, sempre più tristi. Invece la vita, e per noi cristiani il Vangelo, ci mostra chiaramente che la felicità si trova esattamente dall’altra parte, nello spendere la propria vita nell’amore universale».

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