Piazza delle Carceri, meraviglia da conservare, raccontando i suoi autori
Per sottrazione di auto, bus, asfalto è diventata bellissima. Castello e basilica, opposti e complementari, aprono a nuove narrazioni della città
Piazza delle Carceri, che lascia senza fiato a vederla di notte nel silenzio, sembra opera di uno scultore, il solo artista che lavori procedendo per sottrazione. Sottrazione di ciò che in un blocco di marmo è superfluo, per liberare la bellezza che vi era imprigionata. Sottraendo sottraendo, di piazza delle Carceri è rimasta l’essenza superba e incantevole di due monumenti individualmente bellissimi, che diventano meravigliosi, nell’accostamento fra i loro opposti.
Ad operare la sottrazione necessaria affinché la piazza si mostri come una delle più belle d’Italia (e non vergognamoci a dirlo) fu, visionario e coraggioso, Roberto Caverni, assessore a molte cose della giunta Cenni, che vi riuscì nello spazio di una legislatura. Sottrasse le auto vincendo la resistenza di chi paventava disastri per la sparizione di trenta stalli sul lato ovest della basilica. Sottrasse il passaggio dei bus che sbocconcellavano traballanti il sagrato a gradino della chiesa, liberando scarichi che ne segnavano i marmi. Sottrasse l’asfalto, sostituito da pietra serena fragilmente esposta ai nemici chewing gum e cicche e quindi bisognosa di protezione con cestini per rifiuti, tuttavia inutili senza rispetto ed educazione da parte nostra. Sottrasse anche il passaggio di mezzi variamenteautorizzati che ora accedono solo col ritrarsi nell’asfalto dei panettoncini telecomandati che si abbassano in caso di necessità di soccorso e sicurezza, per le ordinarie pulizie e per gli uffici religiosi di funerali e vivaddio di matrimoni. Con spose e sposi raggianti per la lochescion immediata, democratica, gratuita per foto a metri zero, rese più belle dalla bellezza intorno.
Sottrai sottrai, della vecchia piazza è rimasto il monumento ai Caduti, malgrado i tentativi di spostarlo in Santa Caterina: sparita ogni seduta, spenta ogni velleità di donare ombra con alberi in aggiunta a quelli che c’erano e sono rimasti apparentemente a scadenza, come restano gli anziani usufruttuari quando una casa cambia padrone. A forza di togliere, la piazza ha perso vita guadagnando, specie la notte, la dimensione metafisica di un dipinto di De Chirico.
Bellezza e fragilità della pavimentazione hanno fortunatamente trattenuto dall’organizzarvi happening di ogni sorta, spesso sguaiati per contenuti che istigano sguaiatezza. Si ricordano soprattutto comizi di leaderpolitici che curiosamente possono scegliere in base a indole, convenienza, momentaneo prevalere di felpe o di rosari, di apparire con lo sfondo della chiesa intitolata a Maria o del laicissimo castello ghibellino. Una piazza “concordataria“, della quale prima o poi Prato dovrà accrescere il fascino, raccontando ciò che non si vede. E la proietta nel contesto del mondo, grazie ai due uomini, morti a distanza di 242 anni l’uno dall’altro, che tutto il mondo conosce e ammira e qui si danno la mano idealmente. E non succede da nessun’altra parte. Il Castello fu voluto da Federico II, l’imperatore che illuminò il Medioevo, favorendo le scienze e le arti (fu autore di un trattato sulla caccia e ispirò la scuola medica Salernitana), si circondò di poeti che descrivevano la donna come ‘Rosa fresca e aulentissima’ nella Palermo, oggi sede di stupri inenarrabili. E fu ponte fra oriente e occidente, fra cui smorzò gli eterni contrasti dei quali purtroppo non si vede fine. Lo chiamarono, per questo, “sultano battezzato”. Lorenzo il Magnifico volle la basilica delle Carceri, dirottò a Prato l’architetto di casa, Giuliano da Sangallo che aveva appena terminato la Villa del Poggio, gli impose la pianta a croce greca che avrebbe ispirato, come modello, gli studi preparatori di San Pietro a Roma. Non c’è bisogno di raccontare chi sia stato Lorenzo, pure lui circondato di poeti e poeta a sua volta. Entrambi mecenati, Federico e Lorenzo potrebbero realizzare l’estremo patrocinio, ponendo la firma congiunta sull’incanto di questa piazza. Se Prato vorrà.
Nell’attesa servirebbe qualche sobria panchina (le uniche sedute sono i marmi perimetrali della basilica) col rischio però di bivacchi e qualche locale in più. Una pedana bassa per concerti estivi di musica in linea col contesto. E sculture, temporanee installazioni che sembrano sempre troppo piccole per quella piazza vuota e immensa, come sembra piccola la giostra in stile natalizio già montata. E sembravano piccolissimi e di ardua comprensione i filari di piante in vaso esposti lo scorso settembre.
Ma il comandamento è di conservarla com’è diventata, la piazza, distillando le addizioni, aprendola ad arti compatibili, come i giochi di luce notturni, ai quali si prestano a meraviglia le mura del Castello.
Piazza delle Carceri non è per me un luogo qualunque. Mio padre aveva l’ufficio in via San Giovanni, vista mura. Ho ricevuto i sacramenti alle Carceri, facendo sacramentare l’allora parroco assieme alle altre piccole pesti con le quali costruivamo grotte di cera nelle antiche Stinche coi mozziconi di candele. Ed esplorai, esplorammo tutta la chiesa. E soffrivo per il Castello rimasto a lungo chiuso, intrufolandomi ragazzino all’inaugurazione dei restauri firmati dall’architetto Gurrieri con cui la Fortezza fu riaperta e più avanti salivamo sui camminamenti a scattare foto o, furtivi, a pomiciare. E all’apertura del Tirreno, nel palazzo di fronte, ebbi buon gioco, con tutti colleghi di fuorivia, nell’accaparrarmi l’unica scrivania con duplice vista su Castello e abside di San Francesco.