2 Maggio 2024

«Nel carcere della Dogaia c’è una disorganizzazione totale», la denuncia della Garante per i detenuti di Prato

Margherita Michelini, in carica da circa due anni, descrive i problemi della casa circondariale: sovraffollamento (587 detenuti su una capienza massima di 400) e mancanza di figure apicali nel personale. «Non era nemmeno previsto un menù diversificato per i diabetici»


Sovraffollamento, carenza di funzionari con conseguente mancanza di coordinamento del personale, poche opportunità di reinserimento attraverso progetti formativi e lavorativi, cattiva organizzazione degli spazi. Il carcere della Dogaia appare come un malato molto grave e bisognoso di interventi urgenti da parte del Ministero di Giustizia, altrimenti «si rischia il collasso», come hanno denunciato più volte i sindacati di polizia penitenziaria negli ultimi mesi. La conferma che la situazione sia critica arriva anche da Margherita Michelini, da circa due anni garante per i detenuti della casa circondariale di Prato, intervistata sulle pagine pratesi del settimanale Toscana Oggi. «All’interno c’è una disorganizzazione totale», dice senza mezzi termini.

Michelini, fiorentina, ha una esperienza importante alle spalle, è stata direttrice del Gozzini a Firenze e del carcere femminile di Empoli, nella metà degli anni Novanta è passata anche da Prato come vice direttrice alla Dogaia e prima era stata a San Vittore, sempre nello stesso ruolo. Oggi ha 68 anni, è in pensione e ha deciso di proseguire il proprio impegno a favore dei detenuti e di farlo «pro bono», perché il garante è un incarico volontario, compiuto in puro spirito di servizio.

 

 

In questi diciotto mesi di servizio che realtà ha avuto modo di conoscere?
«Ho toccato con mano la complessità del carcere di Prato. Tra le tante cose che non vanno, la più grave a mio avviso è la mancanza di coordinamento tra le persone che ci lavorano. Quello che funziona è merito di pochi volenterosi che prendono iniziativa. Questa situazione nasce dal fatto che a mancare sono le figure apicali, non ci sono i coordinatori dei vari reparti, da oltre due anni manca il commissario comandante di reparto, mancano funzionari, scoperti per l’80 per cento. Anche il direttore è facente funzione, si tratta dell’attuale direttore del Gozzini a Firenze».

Non mancano invece gli agenti semplici, che lamentano di essere stati abbandonati dalle istituzioni.
«Il personale di base c’è. Sono agenti molto giovani, i quali, se posso dirlo, hanno una formazione molto burocratica e non mi sembrano sensibili al disagio. Mancando le figure di sovrintendenti, non possono prendere iniziative per proprio conto. Sanno che anche il direttore è reggente e questa situazione crea parecchia tensione nel personale».

Quanti detenuti ci sono attualmente alla Dogaia?
«L’istituto è pensato per 400 detenuti, invece sono molti di più. Lo scorso 3 aprile ce n’erano 587. Di questi, 357 stanno scontando una pena definitiva, 52 sono appellanti, 38 ricorrenti in Cassazione e ben 95, un numero molto alto, sono in custodia cautelare, quindi ancora in attesa del primo giudizio. Gli stranieri sono il 49,92 per cento del totale».

Da quando è arrivata quanti detenuti ha incontrato?
«Circa 150 persone, ma le richieste sarebbero molte di più, almeno il doppio. Vado in carcere una volta ogni dieci giorni e in quella occasione riesco a parlare con non più di cinque detenuti».

Cosa le chiedono?
«Di tutto. Mi chiedono di fare anche cose che non rientrano nelle mie possibilità. Di recente un detenuto pretendeva che lo aiutassi nell’avere il riconoscimento del figlio. Ho spiegato che non potevo e mi ha quasi aggredita, per fortuna sono riuscita a calmarlo. La carenza di organico fa sì che spesso durante i colloqui io sia sola».

Quali richieste riesce a esaudire?
«Diverse. Le dico una delle ultime. Un detenuto insulino dipendente mi ha detto che in carcere non è previsto un menù per diabetici. Ho parlato con il medico e ho scoperto che alla Dogaia i diabetici sono trenta e non hanno alcuna agevolazione. Così ho messo in contatto l’area sanitaria con chi si occupa della mensa e ho fatto in modo che i diabetici avessero un trattamento adatto alla loro situazione».

Da un punto di vista strutturale come è messo il carcere della Dogaia?
«Strutturalmente non va male, ma ci sono tante tare. Nella media sicurezza le celle sono sempre piene e viene meno la regola prevista dalla legge dei tre metri quadri a persona, escluso lo spazio occupato dal letto. I bagni sono senza bidè e senza finestre, con gli aspiratori che non funzionano, non ci sono le docce nelle celle e manca l’acqua calda».

Perché i cittadini dovrebbero interessarsi ai problemi del carcere?
«I detenuti sono persone che hanno commesso reati, stanno scontando una pena e al termine della reclusione torneranno nella società. Farli reinserire, evitare la recidiva, dargli una nuova possibilità, è nell’interesse di tutti».

Ha avuto modo di conoscere le realtà sociali presenti in carcere?
«Ho conosciuto il cappellano don Enzo Pacini e mi è sembrata una persona molto in gamba. Ho visitato la casa Jacques Fesch per i detenuti in permesso o a fine pena, è un servizio importantissimo. Ho incontrato le volontarie del Gruppo Barnaba, sono determinate e fanno davvero tanto».

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