28 Agosto 2014

Tra i matti di Gubbio e le colline de La Barcaccia: asceti, artisti e molta fatica nella settima tappa verso Assisi


Settima tappa: Gubbio-La Barcaccia (circa 33 chilometri)

A Gubbio lascio metà del mio cuore: una città unica, arroccata sui monti e mai stanca di vivere, con le sue viuzze, i sali-scendi in cui è bello naufragare, i palazzi quasi monolitici.
Ho vagato, ieri sera, per il centro storico, armato di birretta e tipica crescia eugubina (una specie di piadina del posto) e sono rimasto estasiato da Piazza Grande, che con il crepuscolo è diventata il centro di un mondo magico, infinito. In Corso Garibaldi ho mangiato, con la massima tranquillità, una coppetta di gelato seduto su una panchina; due ragazzi sono passati, mano nella mano, si sono fermati proprio di fronte a me e si sono dati un tenero bacio. E io ho pensato che dev’essere proprio bello innamorarsi a Gubbio.
E poi è stato altrettanto bello scoprire che è la città dei matti: secondo una storia che non posso raccontare con precisione, perché non sono riuscito a origliare per bene la guida locale trovata per caso a spiegare la città a un gruppo di turisti armati più di macchine fotografiche che di curiosità, gli eugubini, per protestare contro il rialzo del prezzo del pane, secoli e secoli fa si finsero pazzi. Per questo campeggia in fondo alla via principale la fontana dei matti: basta fare tre giri col dito immerso nell’acqua ed essere “battezzato” da un abitante del posto per essere a tutti gli effetti matto. Ora, pur ritenendo di rientrare nella categoria, comunque la volontà di pucciarci le dita è stata tanta, peccato che non abbia trovato nessun autoctono disposto ad aspergermi a dovere…
Sembrava quasi che fossi un turista in gita di piacere, ma il sogno si è dissolto la mattina dopo, con una mega tappa di 33 chilometri fino alla Barcaccia: una roba veramente ai limiti del possibile, con una salita spacca-gambe che lascia il posto a una discesa ripida e a diversi sali-scendi immersi nel bosco, con tanto di due o tre guadi da fare. E ovviamente niente fonti d’acqua, se non una a metà strada, nell’abitato di Biscina.
Presa la messa alla chiesa di San Francesco, parto solo ma dopo una decina di chilometri incontro un tipo smilzo con lo zaino, curvo su un prato: ovviamente Teo, mentre “salvava” un altro paio di lumache inserendole nel loro habitat ideale. Decidiamo di fare la strada insieme ma le chiacchiere son poche, la tappa di oggi sfinirebbe anche Reinold Messner: dopo i 400 metri di dislivello in salita e in discesa, arriviamo al chiesino di Santa Maria delle Ripe, un piccolo angolo di santità in una tappa che ci ha tirato fuori dalle bocche parole tutt’altro che dolci. Da lì all’eremo di San Pietro in vigneto, dove, secondo la guida di Teo, “l’eremita non vuole essere disturbato”. “Oh, suoniamo il campanello e si scappa?” propongo al piemontese naturofilo, che ovviamente ci sta, pur di fare uj piccolo spregio all’asceta. Eppure rimaniamo beffati, perché non solo non arriviamo all’eremo, ma troviamo l’eremita “fuori sede”, per il sentiero con un furgoncino bianco. Ora, siete curiosi di sapere come è fatto? Bene, è esattamente come ve lo immaginate: occhialoni, barba a punta lunga fino all’ombelico, aria austera. Una specie di connubio riuscitissimo tra Confucio e il maestro Splinter delle tartarughe Ninja, insomma.
Dopo aver conosciuto “colui che non vuole essere disturbato”, ci immergiamo nel percorso, tra la fitta boscaglia umbra, che non perdona nemmeno il camminatore esperto: per questo diversi altri pellegrini si fanno venire a prendere dopo una ventina di chilometri da conoscenti o dai responsabili degli ostelli in cui sarebbero andati a pernottare. No, a questo punto non posso mollare: tra pietraie e piccoli strapiombi, guadi e insetti di ogni genere, con Teo ci avviciniamo al paese, fino agli ultimi chilometri, tutti su strada asfaltata ma sotto il sole.
Decido di fermarmi alla Barcaccia, frazione prima di Valfabbrica chiamata così perché era il luogo in cui era ormeggiata la barca (ancora esistente) per traghettare i passanti al di là del fiume Chiascio. Qui mi butto in una esperienza nuova, chiedendo ospitalità a una famiglia che so che mette a disposizione la sua casa ai pellegrini: una cosa molto diversa dai bed and breakfast e dalle locande in cui ho dormito di solito. Busso, mi accolgono in casa come un figlio: per cena c’è torta al formaggio, frittata e riso con lenticchie. Divoro tutto, ed è bello sentirsi come in famiglia, dopo una settimana di deserto. Lavo i piatti, do una mano in cucina, e intanto rubo la loro storia, che pare uscita dalle pagine di un libro: Marina e il marito sono sardi, emigrati in Umbria alcune decine di anni fa perché volevano vivere a contatto con questa natura, liberi e semplici. Maestra d’asilo lei, uomo impossibile da etichettare lui: un po’ artista (il suo tratto di matita è delicato e intimo) un po’ contadino, un po’ musicista. Un uomo annerito dal sole e con una folta barba grigia. Marina mi avverte che è un uomo molto taciturno, introverso, ma voglio troppo sapere il vero perché della fuga dalla Sardegna e delle nuove radici in mezzo ai boschi sopra il fiume Chiascio: “In città è tutto morto” mi dice, guardandomi con occhio sincero e accennando un sorriso. “Come fai a vivere se non in mezzo alla natura? Seguendo i suoi ritmi, camminando al suo stesso passo”. Penso che quest’ultima immagine sia proprio bella, e capisco il suo atteggiamento. La serata va avanti a chiacchiere e aneddoti, fin quando non mi chiedono di fare una dedica sul loro libro degli ospiti. E lì mi son mancate per davvero le parole, perché di fronte all’affetto e alla disponibilità non è tanto semplice ricambiare con la penna.
Anche oggi ho imparato un altro piccolo insegnamento,e la pace che mi hanno trasmesso irradia ogni mio nervo, anche se acciaccato dai quasi 200 chilometri di cammino.

Cosa che ho imparato oggi: La ricetta della torta al formaggio di Pieve Santo Stefano
Cosa che mi porterò in tasca domani: La pace della famiglia della Barcaccia, che ha capito che lingua bisogna parlare

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stefania
stefania
9 anni fa

Bellissimi racconti, brevi con un grande senso di logica, persone e cose, leggendo le vedi come fossero conosciute, che ti prendono per mano e anche chi legge si ritrova a vivere il cammino.
Il primo racconto l’ho letto tanto per leggere e poi gli altri proprio li ho cercati. Grazie