25 Agosto 2014

Tra filosofia e buona tavola, con qualche domanda esistenziale: giro di boa del cammino a piedi verso Assisi


Quarta tappa: San Sepolcro-Città di Castello (33,8 chilometri)

Giro di boa del cammino: ancora scosso dalla giornata di ieri – non certo consueta – torno in centro a San Sepolcro con una mezz’ora di anticipo rispetto alla tabella di marcia, per spararmi una colazione pantagruelica, com’è solitamente nel mio stile. Giusto il tempo di far arrivare il mio nuovo compagno di avventura, bello acciaccato a entrambe le ginocchia, ma pronto lo stesso a farsi un tappone ai limiti del possibile: quasi 34 chilometri, passando dai paesaggi più belli che uniscono la Toscana all’Umbria.
Come due treni salutiamo San Sepolcro e il suo bellissimo centro storico, che mi ha rapito proprio perché l’ ho conosciuto deserto, e ai margini della cittadina in provincia di Arezzo mi lascio rapire dalle distese sterminate di tabacco: campi e campi di foglie rigogliose, che quasi disturbiamo col nostro passaggio. E la storia parte da sé, col don che racconta come in Venezuela ci sono piantagioni di tabacco incredibili, che in estate si riempiono di bambini perché è consuetudine delle sue parti far lavorare i campi per quindici giorni ai ragazzi che non hanno passato alcune materie scolastiche. “Almeno così capiscono che vuol dire lavorare la terra e dopo l’estate non vedono l’ora di passare gli esami e mettersi sotto con lo studio”. Insomma, tradotto per gli amici di Prato: meno Cinquale e più vanga in mano… E poi vedi come studiano ‘sti ragazzi!Rido. E apro il vaso di Pandora della mia vita a questo sconosciuto che incarna perfettamente sia il sudamericano che l’ambrosiano: e partono i mille racconti tra frizzi e lazzi. Fino a quando non parlo del mio mestiere, perché lì pare piuttosto interessato e non si risparmia di raccontarmi della stampa venezuelana e del nord-Italia, tra notizie fasulle, titoloni urlati e mezze scandali mediatici. E poi esordisce con una citazione che mi ha accompagnato per buona parte della tappa di oggi: “Quid est veritas?”, una frase biblica su cui mi sono fermato per più di qualche ora. Che cos’è la verità per me? Un’opinione? Un fatto? Una frase sussurrata a un orecchio amico? Un pensiero che mi mette in crisi e a cui non avevo mai dato troppo peso, vivendo in una società che vende verità a metà prezzo o al miglior offerente. E anche qui il cammino giunge in aiuto: dopo i chilometri di oggi credo di aver capito che la verità più che altro non è roba nostra, non la possiamo né gestire né tanto meno svendere, ma è qualcosa di più alto, che ti affronta ogni giorno e ti sfida sulla strada, senza mai lasciarsi afferrare. E dopo questo pensiero da filosofo del Bar Sport torniamo alla tappa: mattinata che inizia come una spingarda caricata a sale grosso, come lepri passiamo i campi di tabacco (buonissimo l’odore degli essiccatoi in funzione, da estasi) e arriviamo a Fighelle, dove chiaramente la fontanella per i pellegrini non funziona. Lì mi arriva l’idea che risolve la mattinata: caricare le bottiglie con l’acqua del rubinetto del cimitero lì accanto. Mi pare una cosa un tantinello blasfema, ma il buon Alfredo per farsi perdonare intona un Eterno riposo e benedice le tombe. E io sorrido perché, tra la calata e le movenze, mi pare proprio uguale a Papa Francesco. Via veloci, si riparte tra pettate veramente toste fino a Citerna, borghettino medievale bellissimo, già in Umbria. Da cosa mi accorgo che ho lasciato la Toscana? Perché ogni volta che chiedo informazioni a qualcuno, questo risponde concludendo la frase con “Oh Tosco!” oppure con “Toscanoooooo”. Insomma mi trattano come una specie balzana in via d’estinzione, che burloni! A Citerna ci fermiamo a visitare alcune chiese; una mi è rimasta particolarmente impressa, con un Cristo antico con capelli e barba posticci. A me pare proprio una roba di cattivo gusto, ma Alfredone mi spiega che nei secoli addietro ai seminaristi, a un certo punto del loro percorso, facevano tagliare i capelli, con cui poi ornavano le statue come questa. Robe incredibili (e ho pensato al nostro seminarista di Prato capelluto e barbuto: sai quante decine di statue si potevano ornare?!?). Bon, ultima salitona di 200 metri di dislivello fino a Le Burgne, con i ginocchi del don già a pezzi e la tappa che è soltanto a metà. In cima ci fermiamo a mangiare da Patrizia e Maurizio, che secondo me tanto tanto centrati non sono. Maurizio ci accoglie e appena scopre che sono con un sacerdote parte lo scontro tra titani: è una ridda di racconti e di storie di vita vissuta, con le mie orecchie che cercano di destreggiarsi ma che non arrivano proprio a tutto. E poi capisco: sono le vicissitudini di un uomo ferito e triste, a cui la vita ha tirato molti schiaffi tra capo e collo. E che cerca di confessarsi di fronte al primo prete che vede da diverso tempo. Mangiamo, paghiamo e Maurizio mi saluta con una stretta di mano; poi si rivolge a don Alfredo: lo abbraccia a lungo, lo stringe e gli sussurra alcune parole all’orecchio, affidandogli tutto il suo piccolo martirio quotidiano. E lì capisco: chi cammina non lo fa solo per se stesso, ma porta nello zaino la speranza, le lacrime e il volto scuro di chi incontra, di chi conosce, di chi ama. Allora mi sento indegno, e riparto da Le Burgne con troppi pensieri in testa. Amen, l’ho voluta la bicicletta? E ora pedalo.

Rinfrancato dal pranzone con antipasti e brocca di sangria offerta da Patrizia e Mauri (viaggiare con un prete ha i suoi vantaggi) puntiamo verso un posto che non diresti mai esistere nelle campagne di Città di Castello: un caseificio gestito da napoletani dalla parlata parecchio stretta, in cui lavorano il latte di bufala, proprio come in Campania. Un piccolo pezzo di cuore partenopeo tra i boschi e il verde dell’Umbria, e rido a sentire questa famigliola che urla e sbraita in laboratorio che pare Spacca Napoli all’ora di punta.
Meglio pensare a mangiarsi la mozzarella che veramente “Caccia ‘o’ latte”, perché poi inizia la salita per l’eremo del buon riposo: trecento metri di dislivello in tre chilometri, ed è subito pianto e stridore di denti: lascio il camminatore venezuelano alle spalle, e mi inerpico per primo, perché come si suol dire “le discese e le salite vanno fatte al proprio passo”. Arrivo sudatissimo all’eremo, che mi lascia interdetto per almeno due cose: la prima è che non è minimamente un eremo, la seconda è che nel cortile ha svariate razze di animali, tra cui diverse oche. E mi sovviene che le oche alla fattoria della zia della mi mamma mi beccavano sempre da picccolo. Allora un pochino mi cago addosso, ma poi mi trasformo in un perfetto uomo agreste e mi inoltro tra le bestie come i documentaristi americani che si vedono sempre su Paperissima. “Mi scusi, è potabile l’acqua del pozzo?”; “Bevi, bevi Toscooooooo!”. Ancora. Che poi il pozzo è come quelli che si mettono nei presepi, con fune e brocca per pescare l’acqua. Ma io mi accontento di un pratico rubinetto alla base, che butta pure troppo e per poco non schizza le oche, che diversamente mi avrebbero beccato provocandomi così un “amarcord” quasi felliniano.
Alfredo arriva con i suoi dieci minuti di ritardo, ma le gambe non gli si sono ancora staccate dal busto, quindi tiro un sospiro di sollievo. Almeno fino a quando non percorriamo la discesa per Città di Castello, in cui secondo me qualche parolaccia molto poco clericale l’avrà tirata. Ma soda. E sono sicuro che le sta tirando anche adesso (ore 23): dorme in centro storico, dove si sta svolgendo una specie di festone in cui a tutti i crocicchi ci sono dj che sparano musica a duemila decibel.
E domani gli (e ci) aspetta la quinta tappa fino a Pietralunga: 29 chilometri con almeno tre salite parecchio importanti, che a vedere le mappe altimetriche il don è sbiancato di brutto.

Cosa che ho imparato oggi: A chiedermi più spesso cos’è la verità
Cosa che mi porterò in tasca domani: Il pensiero e le intenzioni (compreso quelle di Maurizio de Le Burgne) di chi mi sta accompagnando passo dopo passo, col cuore.

 Leggi la prima tappa

Leggi la seconda tappa

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