Ogni giorno, un nuovo mercato, nuovi clienti, il passaporto che si riempiva di timbri. Campionari e relativi listini parlavano con la forza della qualità e della convenienza. Ma per i pratesi rimaneva un problema di fondo: come comunicare con i sempre nuovi clienti? Lingua, eterno ostacolo. Le generazioni più avanti con l’età si arrangiavano con l’autodidattica fondata sulla frequentazione dei clienti, qui o a casa loro. Per chi invece spostarsi non era facile o preferiva lo studio tradizionale c’era la Berlitz. Oppure lei, l’Università Popolare, che avvicinava i pratesi all’Europa e al mondo senza muoversi da casa. Addetti commerciali, segretarie d’azienda, impiegati delle fabbriche tessili apprendevano nelle aule di corso Mazzoni i rudimenti di inglese, francese, tedesco, mercati dai quali piovevano soldi in città in cambio delle pezze da trasformare in cappotti, abiti, coperte. Se gli affari andavano a buon fine era anche grazie al contributo di quella scuola che insegnava lingue con la consapevolezza di offrire un nutrimento per lo spirito. Un cibo immateriale che aiutasse a crescere come individui e comunità. Con la certezza di dispensare cultura. Perché Unipop, come confidenzialmente si chiamava quella che è riduttivo chiamare scuola, era una fucina di idee, di libri consigliati e scambiati, di musica del mondo fatta scoprire col pretesto della lingua.
Prato, coi suoi scambi commerciali, coi venditori, ma talvolta anche campionariste e magazzinieri spediti o trascinati a New York o Hong Kong avrebbe potuto essere una città poliglotta e non lo è diventata. Ma se non è neppure la replica della macchietta di Totò alle prese con un improbabile francese lo deve in parte all’Università Popolare.
Oggi, con le lingue piu familiari alle giovani generazioni grazie al potenziamento di licei e istituti tecnici, l’università Popolare affina il suo ruolo: non più solo dispensatrice delle basi elementari e di approfondimento, ma anche testa di ponte per conoscere nuove lingue con esperienze dirette nei paesi interessati. Come la Cina: conoscere quella lingua è fondamentale non solo e non tanto per comunicare con la grande fetta di popolazione pratese che proviene da lì (e si esprime in un dialetto lontano dal mandarino ufficiale), quanto come forma di investimento per il futuro: è scontato che gran parte delle transazioni avverranno in quella lingua e che il cinese è destinato a diventare l’inglese del domani. Avvantaggiarsi conviene.
L’Università Popolare, che a dicembre 2022 celebrò i 110 anni di vita guarda al futuro dalla nuova sede di viale Vittorio Veneto 80, senza perdere la consapevolezza di radici che affondano nell’era di inizio Novecento in cui il solidarismo spontaneo e organizzato suppliva alle carenze di uno Stato unitario troppo giovane e povero: era l’epoca delle società di mutuo soccorso che procuravano cibo, tetto, farmaci a chi ne aveva bisogno. E delle organizzazioni operaie che garantivano primitive ma efficaci forme di assistenza e previdenza. L’Università Popolare nacque in quei giorni con la fierezza di adempiere al precetto che non di solo pane vive l’uomo e che la cultura dovesse far parte della quota di welfare da distribuire ad ogni cittadino. Lingue comprese, abbattendo confini nell’epoca in cui i governi erano disposti a sanguinose e devastanti guerre per difenderli. Questa era l’Università Popolare che domani (sabato 28 ottobre) aprirà la sede di Prato per l’open day finalizzato ad incontrare quelli che non saranno mai clienti ma associati, mai customers, ma friends. In una logica non commerciale ma di “mutuo soccorso” aggiornato al terzo millennio. Basato sullo scambio di conoscenze e cultura, ricchezza superstite e inscalfibile di ciascuno di noi.
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disegno di Marco Milanesi