15 Febbraio 2024

Operaia si amputa una falange al primo giorno di lavoro nero in una delle tante fabbriche di sfruttamento

L'inchiesta del Gruppo Antisfruttamento della Asl: 3 misure cautelari, la storia paradigmatica di una confezione cinese di via Pistoiese


Al suo primo giorno di lavoro a nero, dopo 12 ore senza pause, si è amputata la falange di un dito mentre attaccava bottoni in una confezione di via Pistoiese. Da questo infortunio – patito da una donna cinese e occultato dal suo aguzzino che l’ha accompagnata al pronto soccorso per accreditare la tesi dell’incidente domestico facendo leva anche sulla mancata conoscenza della lingua italiana della vittima – è partita l’ennesima inchiesta della Procura di Prato contro lo sfruttamento lavorativo nel distretto dell’abbigliamento cinese. La complessa indagine, durata due anni e condotta dal Gruppo Antisfruttamento della Asl Toscana Centro, con la collaborazione del nucleo investigativo dei Carabinieri di Prato, ha portato all’esecuzione di misure cautelari nei confronti dei 3 datori di lavoro, tutti cinesi: una coppia, nel frattempo trasferitasi a Bologna e operante in altri settori, è stata posta agli arresti domiciliari, mentre l’attuale gestrice dell’azienda è stata posta all’obbligo di dimora e presentazione alla polizia giudiziaria.

Le vittime dello sfruttamento
Oltre alla vittima dell’infortunio sul lavoro – che ha denunciato i fatti ed è stata inserita nel percorso di tutela sociale e giuridica previsto dall’accordo fra Procura, Asl, Comune e sindacati – sono una trentina le vittime accertate di sfruttamento lavorativo, tutte orientali e accomunate da una condizione di precarietà, che il gip ha definito di “debolezza negoziale”. Si tratta infatti di soggetti soli, che raramente comprendono la lingua italiana, privi di un apparato familiare di sostegno e di una soluzione abitativa alternativa a quella concessa dal datore di lavoro, con permessi di soggiorno a scadenza e, sovente, con problematiche di natura economica.
Proprio in quest’ottica va letta la loro reticenza dato che, quando sono stati sentiti dagli investigatori, anziché tentare di emanciparsi, descrivendo in maniera veritiera quelle che erano le condizioni di lavoro loro imposte, hanno minimizzato la gravità delle condotte che subivano quotidianamente, salvo poi essere smentiti attraverso altri espedienti investigativi.

Lavorare 14 ore al giorno per 5 mesi di fila
Elevata la percentuale lavoro nero, grigio (finti contratti di lavoro part time da 4 ore al giorno) e, in taluni casi, anche clandestino evidenziata dall’inchiesta. Assolutamente abnormi i ritmi di lavoro: 14 ore al giorno (con punte di 17 ore), 7 giorni su 7, pause brevissime, a fronte di una retribuzione corrisposta o “a cottimo”, pari a pochi centesimi per capo lavorato, o forfettaria, per un compenso di circa 4 euro/ora. In quest’ultimo caso, avendo riconosciuti circa 13 centesimi a pezzo lavorato e a fronte delle innumerevoli ore lavorate, alcuni operai riuscivano a guadagnare a nero fino a 5.000 euro al mese, sottoponendosi a ritmi e carichi di lavoro che sul lungo periodo li avrebbero esposti a gravi rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, come riscontrato dalla Asl. Nei confronti di un operaio, è emerso che non ha beneficiato di alcun giorno di riposo per 5 mesi consecutivi.

Sicurezza sconosciuta e falsi attestati di formazione
Altrettanto precarie le condizioni di sicurezza ed inidonee quelle alloggiative alle quali erano costrette le maestranze. Durante l’indagine sono state numerose le prescrizioni impartire dai tecnici della Prevenzione ASL, in alcuni casi non ottemperate: vie di esodo ostruite, porte di emergenza sbarrate, dormitori ricavati in spazi angusti, carenze impiantistiche e la completa assenza di formazione e informazione che vedeva le maestranze operare prive delle opportune conoscenze in relazione ai rischi lavorativi e alle misure di prevenzione e protezione da adottare.
Anche in questo caso, l’inchiesta ha consentito di raccogliere indizi relativi al rilascio di falsi attestati formativi. Un fenomeno preoccupante, reso possibile dalla collaborazione di professionisti conniventi, sul quale sono ancora in corso ulteriori approfondimenti investigativi.

Cambiare nome per non cambiare niente

Per l’ennesima volta l’indagine ha disvelato la capacità dei titolari di impresa di alterare in breve tempo gli assetti aziendali, schermandosi dietro prestanomi. Dal 2021 ad oggi, sono state ben 3 le ditte che si sono succedute presso il medesimo sito di via Pistoiese, dove a seguito di accessi e acquisizione di libri mastri del lavoro a cottimo, qualcuno si informava sulla possibilità di avere indietro i conteggi delle ore lavorate per saldare i conti con operai e fornitori, mostrando così totale indisponibilità a mettersi in regola. A cambiare era soltanto il nome dell’azienda: un turn over fittizio, volto ad eludere gli obblighi fiscali e contributivi, visto che, a parte il nome dell’intestatario, tutto il resto rimaneva invariato: il luogo di esercizio, gli stessi dipendenti, il numero e la tipologia di attrezzature, gli alloggi delle maestranze, i consulenti e, come in questo caso, anche i soggetti committenti. Anche su questi ultimi, ed in particolare sulla loro capacità di dare impulso al vortice dello sfruttamento, si è concentrata l’attenzione degli investigatori, impegnati in una serie di perquisizioni a Prato e a Bologna. La Procura ha sottolineato come siano state proprio le pressioni da parte dei pronto moda sui tempi di consegna e i miseri costi riconosciuti per le lavorazioni sottostanti a indirizzare le condizioni di sfruttamento nella confezione. Il pm Nitti aveva chiesto misure cautelari anche nei confronti di soggetti riconducibili al committenti; una linea respinta dal gip, contro il cui provvedimento la Procura si appellerà.

Foto di archivio

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